Avv. Maria Tolmatcheva
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A norma dell'art. 30, comma 1 della Legge Italiana del 31 maggio 1995 n. 218, I coniugi possono convenire per iscritto che i loro rapporti personali e patrimoniali siano regolati dalla Legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede"
Quindi, se uno dei due ha la cittadinanza, ad esempio russa, è possibile, secondo diritto internazionale privato Italiano, scegliere proprio la Legge della Federazione Russa per la regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi, anche se la coppia dovesse sposarsi e poi vivere in Italia.
Dal punto di vista dei rapporti personali ciò comporta che, qualora il matrimonio dovesse giungere alla fine, non esiste una prima fase di separazione, per poi essere seguita da una più o meno lunga fase d’attesa prima di poter intraprendere una causa di divorzio, e poi del divorzio, con tutto il dispendio del tempo e di denaro, come spesso, purtroppo, avviene in Italia. Se non ci sono figli comuni di minore età, lo scioglimento del matrimonio avviene mediante la presentazione di una richiesta, sottoscritta da entrambi, da presentare presso Ufficio di Registro degli atti di Stato civile.
Se vi sono figli comuni minori, o in caso in cui uno dei due coniugi si rifiuti a firmare la richiesta, lo stesso si fa attraverso il procedimento di volontaria giurisdizione del Tribunale, che dura mediamente pochi mesi. Qualora la procedura dovesse essere instaurata in Italia, il Giudice italiano dovrà applicare la legge russa per la procedura di scioglimento degli effetti civili di matrimonio. Quindi, anche in questo caso, il procedimento dovrà svolgersi in un’unica fase, saltando quella di separazione personale.
Dal punto di vista patrimoniale, ai sensi degli articoli 40 - 42 del Codice di Famiglia Russo, ciascun coniuge può scegliere di rimanere l’esclusivo proprietario dei beni da ciascuno di essi acquistati sia prima di matrimonio, che in costanza di esso e pertanto si applica il regime della separazione dei beni. Il principio di separazione dei beni si allarga anche su casa adibita a residenza familiare, con la conseguenza che il coniuge che non ne è proprietario, non potrà avere neanche il diritto di godimento sulla stessa in caso di crisi della famiglia.
Inoltre, negli accordi matrimoniali si può prevedere anche la misura di eventuale mantenimento del coniuge più debole economicamente, in caso di scioglimento di matrimonio
Quindi, niente più paura di costose procedure ne di gravi oneri di mantenimento in caso di crisi di matrimonio! Tutto si può decidere e regolare prima di concludere il matrimonio, o anche in qualsiasi momento dopo, attraverso una convenzione matrimoniale da firmare davanti ad un notaio, ai fini della pubblicità e tutela di terzi, oltre che dei coniugi stessi.PERMESSO DI SOGGIORNO PER ASILO POLITICO
Il permesso di soggiorno per asilo politico viene rilasciato dalla Questura al titolare dello status di rifugiato.
Lo status di rifugiato viene riconosciuto allo straniero che, per motivi di razza, religione, appartenenza sociale e/o politica, viene perseguitato nel Paese di cui possiede la cittadinanza o, in caso di apolidia, nel territorio in cui aveva la dimora abituale, per cui non può farvi ritorno.
DOMANDA
La domanda per il riconoscimento dello 'status di rifugiato' può essere presentata presso la Polizia di frontiera o presso la Questura.
La domanda viene inviata alla Commissione territoriale competente in materia, la quale, entro 30 giorni dalla ricezione, ascolta il richiedente nel corso di un colloquio a porte chiuse e prende una decisione nei 3 giorni successivi.
La Commissione può:
- riconoscere lo status di rifugiato;
- riconoscere lo status di protezione sussidiaria;
- rigettare la domanda attraverso un provvedimento motivato.
La Commissione territoriale rilascia al rifugiato un certificato che attesta il suo status di rifugiato. Lo Stato italiano ha l’obbligo di fornire al rifugiato un documento equipollente al passaporto. E' anche possibile che la Commissione, pur non accogliendo la domanda, ritenga che sussistano gravi motivi di carattere umanitario che impediscono allo Straniero di rientrare nel suo Paese senza subire danni. In questo caso, la Commissione trasmette gli atti alla Questura territorialmente competente per l'eventuale rilascio di un permesso di soggiorno.
Al titolare dello "status di rifugiato" la Questura rilascia un permesso con motivo asilo politico.
Il primo rilascio deve essere chiesto presso la Questura, il rinnovo avviene tramite procedura postale.
Il permesso per asilo politico:
- ha una durata di 5 anni;
è rinnovabile;
- consente l’accesso allo studio;
- consente lo svolgimento di un’attività lavorativa (subordinata o autonoma);
- permette l’iscrizione agli albi professionali;
- consente l’iscrizione al servizio sanitario;
- dà diritto alle prestazioni assistenziali dell’Inps (‘assegno sociale’ e ‘pensione agli invalidi civili’) e all’assegno di maternità concesso dai Comuni.
...E’ importante sapere che:
I titolari di permesso per asilo politico non possono presentare richiesta del permesso CE per soggiornanti di lungo periodo;
Il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di asilo, anche il titolare di permesso di soggiorno per asilo ha l’obbligo di sottoscrivere l’accordo di integrazione e di osservarne le prescrizioni, ma non è punibile in alcun modo qualoranon vi ottemperi entro due anni.
Il rifugiato è esentato dal pagamento del contributo per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno elettronico
Ricongiungimento familiare
Il titolare di permesso per asilo, può fare richiesta di ricongiungimento familiare per consentire l’ingresso in Italia dei propri familiari.
Il titolare di status di rifugiato non deve dimostrare di possedere i requisiti di alloggio e di reddito richiesti ai titolari di altri tipi di permesso di soggiorno.
Se i familiari si trovano già in Italia, anche se non in possesso di un regolare permesso di soggiorno, possono fare richiesta, tramite procedura postale, del permesso per motivi di familiari.
Cittadinanza italiana
Per il titolare di status di rifugiato sono previsti tempi dimezzati per la richiesta della cittadinanza italiana per naturalizzazione. Potrà quindi fare richiesta dopo soli 5 anni di residenza in Italia.
PERMESSO DI SOGGIORNO PER RICHIESTA D’ASILO
Il permesso di soggiorno per richiesta d’asilo è rilasciato al cittadino straniero che intende presentare domanda di asilo in Italia da parte delle seguenti autorità di polizia:
dall’ufficio di polizia di frontiera del luogo dove il cittadino straniero è entrato;
dalla Questura di residenza se il soggetto si trova già in Italia e la richiesta viene presentata successivamente al suo ingresso.
Qualora la decisione della domanda di asilo non venga adottata entro sei mesi dalla presentazione della domanda d’asilo ed il ritardo non possa essere attribuito al richiedente asilo, il permesso di soggiorno viene rinnovato per altri 6 mesi e consente alla persona di svolgere attività lavorativa fino alla conclusione dell’iter di riconoscimento dello status di rifugiato .
Il permesso di soggiorno per richiesta d’asilo non può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro. Al richiedente asilo viene rilasciato un nuovo permesso di oggiorno riportante la dicitura: per richiesta asilo - attività lavorativa. Tale permesso di natura temporanea è valido per 3 mesi ed è rinnovabile fino alla definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato presso la competente Commissione Territoriale.
Nessun riconoscimento giuridico è dato alla famiglia di fatto ma esistono numerosi interventi legislativi e giurisprudenziali che attribuiscono alla convivenza alcuni effetti giuridici e addirittura dei diritti tutelabili in giudizio. La tutela scaturisce dalla considerazione che la famiglia di fatto può essere considerata come “formazione sociale” riconosciuta dalla Costituzione (art. 2 Cost.) che diventa fonte di doveri morali e sociali per ciascun convivente nei confronti dell’altro (Cass. Civ. n. 14343/2009).
1. Filiazione nella famiglia di fatto
Nel caso di filiazione nell’ambito di una convivenza, l’ottica muta radicalmente. Se in passato i figli naturali ricevevano una diversa tutela giuridica rispetto ai figli legittimi, oggi si può affermare la totale equiparazione degli stati di filiazione sia che essa avvenga nel matrimonio, sia che derivi da genitori non coniugati (l. n. 219/2012 e D.lgs. n. 154/2013). La recente riforma ha attribuito a tutti i figli lo stesso status giuridico. Non esistono più le disposizioni che fanno riferimento alla legittimazione. Le nuove norme prevedono l’abolizione delle terminologie utilizzate fino ad oggi, e la loro sostituzione con l’unica parola “figli”, salvo i casi di disposizioni specificamente dedicate, e in tali ipotesi si parla di figli nati nel matrimonio e figli nati al di fuori del matrimonio. Si applicano le stesse regole in materia di responsabilità genitoriale, di diritti e doveri per genitori e figli e di affidamento e mantenimento in caso di cessazione del rapporto tra i genitori (l. n. 54/2006).
La diversità sussiste soltanto nella modalità di accertamento del rapporto di filiazione, in quanto il figlio nato al di fuori del matrimonio, deve essere “riconosciuto”, mentre il figlio nato da genitori sposati acquisisce automaticamente lo status di figlio della coppia.
I diritti del convivente si articolano in:
Gli obblighi del convivente sono:
Ciò che è stato corrisposto al compagno durante il rapporto in adempimento di quei doveri, non è ripetibile ex art. 2034 c.c. in quanto obbligazione naturale.
Gli accordi di convivenza sono redatti in forma scritta e allo scopo di dettare una regolamentazione patrimoniale del rapporto di convivenza sia durante che dopo la cessazione dello stesso, personalizzandolo rispetto alle esigenze della coppia. Allo scopo di conferire data certa all’accordo, il contratto può essere stipulato dal Notaio con scrittura privata autenticata.
Il contenuto degli accordi può essere vario.
definire gli obblighi di contribuzione e la modalità di partecipazione di ciascun partner nelle spese comuni o nell'attività lavorativa domestica e extradomestica;
Non tutti gli aspetti patrimoniali possono essere disciplinati.
Stante il divieto dei patti successori, non possono essere disciplinati attraverso il contratto di convivenza i rapporti ereditari. Mediante testamento possono essere inserite eventuali clausole in favore del convivente, salvi i diritti degli eredi legittimari. Il convivente può, ad esempio, essere istituito erede oppure può essere disposto in suo favore un legato di somme di denaro o del diritto di abitazione.
Gli accordi vincolano le parti ma non i terzi con i quali le parti stipulino contratti.
Nell’atto possono essere inserite anche clausole penali per la violazione delle obbligazioni patrimoniali contenute purchè siano reciproche, non in contrasto con norme inderogabili di legge e non incidano su diritti di natura indisponibile. Sarebbe nulla la disposizione che preveda una penale a carico del convivente che pone fine alla relazione prima di una determinata data poichè limita la libertà della persona. Ugualmente inammissibile sarebbe la sanzione per infedeltà di un convivente a causa dell’indisponibilità del diritto alla libertà sessuale.
ART. 1.
1. Al secondo capoverso della lettera b) del numero 2) dell'articolo 3 della legge 1970, n. 898, e successive modificazioni, le parole: «tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale.» sono sostituite dalle seguenti: «dodici mesi dalla notificazione della domanda di separazione.
Qualora alla data di instaurazione del giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia ancora pendente il giudizio di separazione con riguardo alle domande accessorie, la causa è assegnata al giudice della separazione personale. Nelle separazioni consensuali dei coniugi, il termine di cui al primo periodo è di sei mesi decorrenti dalla data di deposito del ricorso ovvero dalla data della notificazione del ricorso, qualora esso sia presentato da uno solo dei coniugi.».
ART. 2.
1. Al secondo comma dell’articolo 189 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «o di ricorso per la cessazione degli effetti civili o per lo scioglimento del matrimonio».
ART. 3.
1. All'articolo 191 del codice civile è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. Qualora i coniugi siano in regime di comunione legale, la domanda di separazione è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione a margine dell’atto di matrimonio. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini della stessa annotazione.».
1. Le disposizioni di cui all’articolo 1 si applicano alle domande di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio proposte dopo la data di entrata in vigore della presente legge, anche se il procedimento di separazione, che costituisce il presupposto della domanda, risulti ancora pendente alla medesima data.
Una signora muore per un tumore non diagnosticato dal medico curante. Nel corso delle varie visite mediche, nonostante la patologia fosse riconoscibile, il medico si era orientato per l’origine psicologica dei disturbi lamentati dalla paziente.
Chiamato in giudizio per rispondere del reato di omicidio colposo, il medico avanzava la tesi difensiva del rifiuto delle cure da parte della paziente, la quale nelle ultime settimane di vita avrebbe volontariamente evitato qualunque terapia. Invero, da diverse testimonianze emergeva che la donna confidava nella esattezza della valutazione medica, avendo appreso dal medico che le proprie condizioni di salute non avevano base organica.
Condannato in primo grado e in appello (nel secondo grado, tuttavia, la pena inflitta è stata ridotta), il medico ricorre in Cassazione lamentandosi della mancata analisi, da parte dei giudici, del quadro clinico complessivo, da cui emergerebbe un rifiuto delle cure e l’accettazione della morte da parte della paziente.
La Corte di Cassazione ribadisce il principio già espresso negli anni passati sia da altre sezioni penali sia dalla sezione civile della Suprema Corte, in tema appunto di rifiuto di cure mediche[1].
La sentenza che qui si evidenzia è importante perché con essa la Cassazione riformula lo stesso principio, proiettandolo sulla fattispecie esaminata, nel modo che segue:
“in tema di colpa medica, il rifiuto di cure mediche consiste nel consapevole e volontario comportamento del paziente, il quale manifesti in forma espressa, senza possibilità di fraintendimenti, la deliberata e informata scelta di sottrarsi al trattamento medico. Consapevolezza che può ritenersi sussistente solo ove le sue condizioni di salute gli siano state rappresentate per quel che effettivamente sono, quanto meno sotto il profilo della loro gravità”.
Nel caso in questione, c’è stata inequivocabilmente una diagnosi errata. A tale diagnosi la paziente ha ritenuto di dover aderire, rifiutando di assumere farmaci antidepressivi, che non avrebbero certo modificato il decorso della grave patologia. Non vi è spazio alcuno, allora, secondo i giudici, per l’ipotizzato rifiuto di cure; tra l’altro, “in nessun momento la paziente venne portata a conoscenza dal sanitario o da altri dell’effettiva natura e gravità della patologia che l’affliggeva”. Il rifiuto di cure deve essere affermato espressamente, “non potendosi intendere per tale un comportamento meramente passivo, che può trovare anche nelle scadute condizioni di salute la propria causa”.
Al di là del caso in questione, risolto, come detto, dalla assorbente circostanza della errata diagnosi, che ha condizionato il comportamento della paziente, va detto che sentenze del genere aiutano a comprendere il punto nodale in tema di colpa medica: la spia della negligenza medica è rappresentata sempre da una mancata o insufficiente o non chiara informazione. L’esercizio della libertà, anche di non curarsi, deve essere consapevole.
[1] “l dissenso alle cure mediche, per essere valido e esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco e attuale; si è quindi giudicato non sufficiente una generica manifestazione di dissenso formulata ex ante e in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, essendo necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure (Cass. Civ. sez.3 sent.n.23676/2008; Cass.pen. sez.1 sent.n.26446/2002)”.
Interessante e coraggiosa sentenza del GdP di Lecce Dr. Cosimo Rochira, già noto per aver avere in passato sollevato - tra i primi - dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 10 bis testo Unico sull'immigrazione innanzi alla Corte costituzionale e dubbi sulla compatabilità della norma con la direttiva sui rimpatri innanzi alla Corte di giustizia europea.
Questa volta si inserisce nel solco della sentenza costituzionale del 5 luglio 2010, n. 250, per affermare che la occasionalità della condotta, unita alla mancanza di precedenti penali o di fatti di particolare allarme sociale, può giustificare la speciale tenuità del fatto e quindi l'assoluzione dello straniero.
L'applicabilità di detto istituto è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale con sentenza n.250/2010 e n.321/2010, nonché dalla Corte di Cassazione I Sezione Penale N.13412 del 1.4.2011, e naturalmente rimane subordinata alla concorrente sussistenza di alcuni requisiti, quali l'esiguità dell'offesa all'interesse tutelato; l'occasionalità della violazione; il ridotto grado di colpevolezza; il pregiudizio che il procedimento penale è idoneo ad arrecare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell'imputato, nonché la mancata conoscenza da parte dello straniero, della illecità della condotta e della sua sanzione penale prevista dall'art.10-bis.
L'esiguità dell'offesa all'interesse tutelato è stata già qualificata dal legislatore prevedendo solo una pena pecuniaria per detta contravvenzione; inoltre l'esperienza fin qui acquisita dimostra che l'art.10-bis si è rivelato, per un verso inutile, perché nessuna ammenda irrogata è stata versata dal condannato, per un altro verso inutile ed estremamente costoso, perché i provvedimenti amministrativi previsti dalla normativa sull'immigrazione sono già adottati tempestivamente. L'esiguità del danno o del pericolo che è derivato dall'odierno imputato è così basso da integrare il criterio di particolare tenuità e da escludere la procedibilità dell'azione penale. Il ridotto grado di colpevolezza è provato innanzitutto dalla nazionalità dell' imputato, privo di tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, dalla sua situazione di emarginazione sociale ed economica.
Infine incide notevolmente anche la mancata conoscenza inevitabile da parte dello straniero, della illecità della condotta e della sua sanzione penale prevista dall'art.10-bis, come per la fattispecie de qua, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n.364 del 24.3.1988 che esclude la punibilità quando l'ignoranza della legge penale è inevitabile.
La disciplina prevista dall'art.10-bis, più volte rivisitata dalla Corte Costituzionale e dalla Corte Europea per sospetti dubbi e per quesiti interpretativi in parte fugati, sospettata di irragionevolezza, comunque di inefficacia, ignorata anche da intellettuali italiani, come potrebbe mai essere conosciuta da uno straniero. Di conseguenza il GdP ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell' imputato per il reato di cui all'art. 10 bis D.Lgs nr.286/1998, perché il fatto è di particolare tenuità.
Con sentenza 20 giugno 2013, n. 15481, la Corte di Cassazione ha sancito anche per il convivente more uxorio la possibilità di richiedere il risarcimento del danno da violazione degli obblighi familiari.
Il caso esaminato dagli Ermellini, riguarda una coppia di conviventi more uxorio, che intrattiene una stabile relazione dalla quale nasce un figlio. Ad un anno dalla nascita del bambino, l’uomo, disattendendo la promessa di matrimonio fatta alla propria compagna e intraprendendo una nuova relazione sentimentale, abbandona costei e il figlio privandoli della necessaria assistenza morale e materiale. La donna si rivolge al Tribunale di Treviso, mediante il patrocinio a spese dello Stato, per chiedere il risarcimento dei danni cagionati dalla violazione degli obblighi familiari da parte del suo ex compagno, ma il giudice revoca l’ammissione al patrocino, ritenendo la pretesa azionata manifestamente infondata ai fini dell’applicazione dell’art. 126 d.p.r. n. 115/2012, in quanto la donna non aveva la qualità di coniuge ed aveva agito a seguito della cessazione di una convivenza more uxorio. Provvedimento, questo, impugnato con ricorso in Cassazione.
La sentenza in commento merita di essere segnalata sotto il duplice profilo del rafforzamento dei principi in materia di responsabilità civile endofamiliare e del sempre più ampio riconoscimento giurisprudenziale della rilevanza giuridica delle unioni di fatto.
Il rapporto famiglia-responsabilità civile in passato è parso inconsueto, stante il modello di famiglia-istituzione al quale era ancorato il codice civile del 1942, nonché la pretesa specialità del diritto di famiglia e dei suoi rimedi rispetto alla tutela generale offerta dall’art. 2043 c.c..
L’ingresso della responsabilità civile tra le mura domestiche è stato reso possibile dal processo di privatizzazione della famiglia e dalla progressiva attenzione verso i diritti del singolo all’interno della stessa. Ciò ha contribuito ad abbandonare quel modello di famiglia - disegnato dal legislatore del 1942 - che di tali diritti giustificava il sacrificio in nome del superiore interesse del consorzio familiare e che voleva il diritto di famiglia “diverso” da ogni altro.
Il rapporto famiglia-responsabilità civile si è rafforzato parallelamente a quel percorso giurisprudenziale che, attraverso una rilettura dell’art. 2059 c.c. in chiave costituzionalmente orientata, ha ampliato il concetto di danno alla persona. In tal senso si è orientata la Corte di Cassazione a partire dalle note sentenze gemelle del 2003 (sentt. n. 8827 e 8828), elaborando un nuovo inquadramento sistematico del danno non patrimoniale, sicché il rinvio dell’art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge, non riguarda più le sole ipotesi di danno morale soggettivo derivante da reato, ma comprende altresì gli ulteriori e diversi pregiudizi conseguenti alla lesione di diritti inviolabili della persona.
Pertanto, oggi, alla luce di una concezione moderna della famiglia e dell’evoluzione giurisprudenziale dell’annosa questione del danno alla persona, non può non trovare applicazione la tutela aquiliana tutte le volte in cui un soggetto subisca all’interno del nucleo familiare una lesione ingiusta a seguito della violazione di un dovere matrimoniale.
L’assenza di doveri coniugali in capo alle coppie di fatto, pone il problema di tutelare il convivente più debole, anche sotto il profilo risarcitorio, dalla prevaricazione e dalla scorrettezza del partner, che spesso caratterizzano la fine di un rapporto fondato su una libera scelta.
La insussistenza di obblighi giuridici nei confronti del convivente more uxorio, non impedisce che sia astrattamente configurabile una tutela risarcitoria, qualora siano stati violati i doveri di lealtà, correttezza e solidarietà incombenti sulle parti nella prospettiva della costituzione di un vincolo matrimoniale, e da tale violazione sia derivata la lesione di diritti fondamentali della persona.
Sul punto, la Cassazione - richiamando i principi affermati dalla sentenza n. 9801 del 2005 che in materia di risarcimento del danno endofamiliare estende alla fase precedente il matrimonio la responsabilità per la violazione dei richiamati doveri - sancisce che i componenti della coppia ricevono riconoscimento e tutela prima ancora che come coniugi, come persone, sulla base di quanto previsto dall’art. 2 Cost. che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Orbene, i diritti inviolabili ai sensi dell’art. 2 Cost., la cui lesione è presupposto logico della responsabilità civile, sono riconosciuti in tutte le formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’individuo e, dunque, anche all’interno di una unione di fatto che abbia le caratteristiche della serietà e della stabilità, “non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all'interno di un contesto familiare”.
La Cassazione, con rinnovata apertura verso la famiglia non fondata sul matrimonio, avuto riguardo anche alla significativa evoluzione legislativa, sempre più incline a riconoscere rilevanza, sociale e giuridica, alla famiglia di fatto, cassa il provvedimento del Tribunale di Treviso con rinvio ad altro giudice per il riesame della questione, censurando il precedente giudizio di manifesta infondatezza della pretesa azionata, fondato sulla “insussistenza sia normativa che giurisprudenziale dell'ipotesi di violazione degli obblighi familiari in ipotesi di persone unite da solo vincolo di convivenza more uxorio” per essere stato tratto “in assenza di ogni verifica, evidentemente necessaria, circa la sussumibilità del diritto di cui si denunciava la lesione nella categoria dei diritti fondamentali della persona, a prescindere dal tipo di unione al cui interno detta lesione si sarebbe verificata”, così in termini la sentenza in commento.